Pagina 1
Me ne stavo lì, seduta sulla panchina in legno della sala
d’attesa della stazione di uno sperduto paesino dell’Alto A-
dige di cui non ricordavo nemmeno più il nome. Guardavo in
giro, con le braccia conserte sul petto, i piedi sullo zaino e gli
sci appoggiati alla parete opposta.L’appuntamento era alle
due. Erano già le tre meno un quarto. Quel posto desolato non
era entusiasmante e sebbene la neve candida desse un senso
di pace, stavo per scoppiare dalla rabbia. Rinunciai a telefo-
nare per la sesta volta al cellulare di mia zia, una voce atona
avrebbe nuovamente risposto
«Attenzione l’utente può avere il terminale spento».
Ma perché mi aveva detto che sarebbe venuta a prendermi
in stazione se poi non c’era? E perché aveva spento il cellu-
lare? E per quale cazzo di motivo mi aveva invitato a tra-
scorrere due settimane in montagna con lei e suo marito se
poi era questo l’entusiasmo che mi dimostravano? Non pote-
va averlo dimenticato!Ci eravamo sentite solo ieri sera ed era
al settimo cielo, o almeno così sembrava.
«Non chiamare il taxi, vengo io a prenderti, aspettami an-
che se tardo qualche minuto!»
Alla faccia dei minuti! Era quasi un’ora! Nella stazione e-
ro rimasta ormai solo io, dopo che anche quei tre tedeschi era-
no andati via. Non vedevo mia zia da almeno tre anni, ma
questo non giustificava uno scambio di persona, dal momen-
to che in tutto questo tempo non avevo visto nessuno che
nemmeno vagamente le somigliasse e poi adesso possibilità
di equivoci non ce n’erano proprio! Mi affacciai. Fuori c’era-
no ancora quei due ragazzi che chiacchieravano appoggiati ad
un fuoristrada. Erano lì da un po’, avevano l’aria di due amici
che si incontrano per caso, non aspettavano nessuno… e poi
lei aveva i capelli lunghi e biondi tipici di queste parti e non
dimostrava più di venticinque anni, poco più della metà degli
anni di mia zia.
Pag. 1